Panchito dell’altipiano

Panchito accompagna i turisti a 5000 metri di quota con una camicia di cotone e un maglioncino beige. Sono tredici anni che fa questo mestiere e non ha una giacca a vento. Io batto i denti dentro i miei indumenti tecnici da alta montagna. «Non hai freddo?» chiedo.
«No, sono abituato. E poi ho questi» dice, tirando fuori un paio di guanti.

Mi trovo a Tupiza, nel sud della Bolivia, e sto per partire per un tour di quattro giorni al Salar de Uyuni, la più grande distesa salina del mondo. Con me c’è una coppia di francesi. Panchito è il nostro autista e la nostra guida. Si arrampica sul tetto del fuoristrada per caricare i nostri zaini, poi dice: «Andiamo a prendere la cuoca». Da una casa del paese esce una donna sui cinquant’anni carica di borse. Ha un paio di lunghe trecce nere e porta una gonna ampia a balze, diversi maglioni sovrapposti, uno scialle, un grembiule, calze di lana, sandali (sì, sandali!) e il tipico cappello a bombetta. Si chiama Silvia, dice Panchito, mentre lei si sistema davanti senza una parola, tira fuori i ferri e comincia a sferruzzare.

Saliamo di quota rapidamente. Panchito, come Silvia, è un quechua, un discendente degli antichi inca. Racconta che è cresciuto a Mojinete, un paesino dell’altipiano. A diciotto anni ha camminato per tre giorni e due notti per presentarsi alla leva a Tupiza. Dice che il servizio militare è stata la sua scuola: ha imparato a leggere, a scrivere, a parlare in spagnolo e a guidare, un’abilità che gli ha permesso in seguito di trovare lavoro come autotrasportatore nella regione amazzonica della Bolivia. Al turismo è arrivato tardi, dopo i quarant’anni. «Lo preferisco, perché posso lavorare di giorno e dormire di notte». Ma il suo non è un lavoro facile: guida per dieci-dodici ore al giorno su strade sterrate piene di buche, ci intrattiene con informazioni sul paesaggio e la storia locale, scarica i bagagli a fine giornata, fa il pieno di carburante e controlla che l’auto sia in ordine. Silvia cucina i nostri pasti in ostelli rustici con il tetto di lamiera dove si mangia al freddo e si va a dormire alle otto di sera perché si gela e non c’è niente da fare.

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Di giorno la luce dell’altipiano è abbagliante e i paesaggi sono bellissimi: vulcani, lagune, distese di sale, geyser, deserti, canyon e villaggi abbandonati si susseguono nell’aria rarefatta dell’alta quota. I lama pascolano placidi ai lati della strada, mentre Panchito decanta le ricchezze minerarie della Bolivia e scava il terreno con un bastoncino per mostrarci un grumo di borace.

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L’ultimo giorno è dedicato alla visita del Salar de Uyuni. Ci si alza alle cinque del mattino per andare a vedere l’alba sul lago di sale. Pare di essere al Polo Sud, è tutto bianco a perdita d’occhio. Panchito si sdraia a terra per scattarci fotografie con gli effetti speciali. Lo spazio sconfinato permette di giocare con le prospettive. Mi fa mettere in posa in modo da farmi apparire piccolissima mentre scalo le trecce di Silvia. E lei, la burbera Silvia, si presta.

Più tardi, mentre ci allontaniamo dal Salar, dico a Panchito: «Ti ricordi che io scendo al terminal di Uyuni?».
«Certo, ora ti porto».
Si ferma davanti alla stazione, ci salutiamo. Gli altri tornano tutti insieme a Tupiza, altre sette ore. Io prendo da qui un autobus per Sucre.
Raccolgo lo zaino e abbraccio tutti frettolosamente, come se mi facesse un po’ male. E mentre cammino verso le polverose biglietterie al lato della strada per un attimo mi sento sola.

 

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