La resurrezione di Medellín

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Ciro aveva dodici anni quando tremila uomini armati – soldati, poliziotti e paramilitari – attaccarono il suo quartiere dalla terra e dal cielo per annientare i gruppi guerriglieri che vi si nascondevano. L’operazione, chiamata Orione, durò due giorni e provocò 14 morti e oltre 300 desaparecidos, in gran parte fra la popolazione civile. “Sparavano dagli elicotteri e portavano via gli uomini dalle case” ricorda Ciro.

Era il 16 ottobre 2002 e quell’operazione, ordinata dal presidente Uribe, non era la prima. Ce n’erano state altre undici. La popolazione della Comuna 13, un distretto povero di Medellín abbarbicato sul fianco ripido della montagna e abitato da 135.000 persone, non ne poteva più e scese in strada per dire basta.

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E così, racconta Ciro, “en 2002 no todo fue malo”. Fu allora, infatti, che alcuni giovani cominciarono a utilizzare l’hip hop per rispondere con l’arte alla violenza. Attraverso il rap, i graffiti e la break dance cercavano un modo per trasformare se stessi e il contesto in cui vivevano. Il loro primo festival, un anno esatto dopo l’operazione Orione, lo chiamarono “Revolución sin muertos”, rivoluzione senza morti.

Adesso Ciro ha ventisette anni ed è uno dei leader di Casa Kolacho, un collettivo che organizza corsi di hip hop per i ragazzi e una serie di iniziative artistiche e culturali, fra cui il Graffiti Tour, una visita guidata ai graffiti del quartiere che ha offerto agli abitanti la possibilità di inventarsi piccole attività rivolte ai turisti: bancarelle di empanadas, di ghiaccioli al mango, di magliette con la scritta “Comuna 13”. C’è un clima sereno, con gli anziani seduti fuori e i bambini che giocano per strada. “Siamo felici” dice Ciro che ci fa da guida.

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Non è stato un processo indolore. Nel 2009 Héctor Pacheco detto Kolacho, leader del gruppo che promuoveva l’hip hop come alternativa alla criminalità, fu assassinato per strada da un sicario. È da lui che il collettivo ha preso il nome. “Noi andiamo avanti” dice Ciro. “Non abbiamo paura della morte perché abbiamo già visto di tutto”. Nel parco della biblioteca di San Javier collocano un albero o una pianta per ogni persona uccisa, affinché la vita prevalga sulla morte.

Anche le autorità cittadine hanno scelto di investire sull’arte, sulla cultura e sull’inclusione come risposta alla barbarie. Dopo il bagno di sangue degli anni di Escobar, quando Medellín era la città più pericolosa del mondo e i cadaveri venivano abbandonati agli angoli delle strade, furono avviati cantieri e iniziative per un cambiamento radicale: istruzione gratuita di qualità, biblioteche e centri culturali nei quartieri più svantaggiati, riqualificazione delle aree degradate della città, costruzione della metropolitana e della funicolare per collegare i quartieri delle zone più impervie. Questa politica è stata sostenuta dalla promozione di una cultura civica improntata ai valori del rispetto, della solidarietà e della gentilezza. Persino i messaggi diffusi dagli altoparlanti della metropolitana, pronunciati da una voce sollecita e cortese, riflettono questo stile.

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Certo, non tutti i problemi sono stati risolti. Medellín ha 3.500.000 abitanti ed è una città profondamente diseguale. A poca distanza dai grattacieli di lusso, dai centri commerciali scintillanti e dalle università a pagamento ci sono le baracche di un’ampia fetta della popolazione che vive al di sotto del salario minimo (circa 200 euro). La violenza, il narcotraffico e l’estorsione sono ancora forti, soprattutto nei municipi periferici. Ma il tasso di omicidi è sceso da 308 per 100.000 abitanti del 1991 a 41,7 del 2013.

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Oggi gli abitanti di Medellín, di qualunque ceto sociale, parlano con orgoglio della loro città e la trattano con rispetto. La metropolitana ha più di vent’anni ed è pulita, efficiente e sicura. La Comuna 13 è un quartiere in cui si può passeggiare senza timore. “L’arte ci ha reso più solidali e più felici, e ha messo in moto un processo di trasformazione sociale” dice Ciro.

C’è speranza se questo accade a Medellín.

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