Cap Spartel e le Grotte d’Ercole

Alla fine sono tornata a Tangeri, dove il mio viaggio in Marocco è cominciato. Prima di prendere il traghetto per la Spagna volevo passare ancora qualche giorno all’ostello Bayt Alice, il mio preferito in assoluto, e andare a Cap Spartel, la punta più occidentale dell’Africa del Nord, dove il Mediterraneo e l’Atlantico si incontrano.

Appena arrivata, sulla terrazza dell’ostello ho incontrato Thomas, un francese di Réunion, con cui ho fatto quattro chiacchiere. Poi è arrivato Alin, un rumeno che vive a Bruxelles, e si è seduto con noi. Poi è stata la volta di una coppia di Annecy con tre figli adolescenti. Al Bayt Alice tutti parlano con tutti, come la prima volta che ci sono stata. La sua bella terrazza invita alla conversazione.

La mattina dopo volevo partire presto per Cap Spartel, che dista 14 km da Tangeri, ma ci ho messo più di un’ora per capire come fare. Non volevo prendere un petit taxi da sola, mi sarebbe costato troppo; cercavo un grand taxi che mi portasse fin là insieme ad altre persone. Ho chiesto in giro, ho vagato un po’ a vuoto, e alla fine (evviva!) ho scoperto che i taxi collettivi per Cap Spartel sono parcheggiati davanti alla moschea Mohammed V. Partono quando sono pieni e costano 15 dirham (1,5 €). Fra l’altro, non ho dovuto aspettare molto: in pochi minuti il taxi si è riempito.

La strada sale fra ville e palazzi immersi nel verde, fra cui una delle dimore del re del Marocco. Si attraversa il Parc Perdicaris, una foresta di pini ed eucalipti, e dopo venti minuti si arriva a un belvedere dove il taxi si ferma. Salendo a piedi sulla destra si raggiunge in cinque minuti il faro di Cap Spartel, che segna il punto di incontro fra il mar Mediterraneo e l’oceano Atlantico. Il faro si può visitare a pagamento.

Tornando indietro sul belvedere si vede un sentiero lastricato che scende su un promontorio roccioso con panchine e punti panoramici. Da qui si possono raggiungere a piedi le Grotte d’Ercole, camminando verso sud per circa 7,5 km, un po’ sulla strada e un po’ sulle spiagge sabbiose che si incontrano lungo il cammino. Ci sono bar e ristoranti per mangiare e bere qualcosa, ed è possibile affittare un ombrellone con sedie e tavolino per 30 dirham (3 €).

Alla fine del percorso ho incontrato per caso Thomas, che si era fatto a piedi tutta la strada da Tangeri. Ci siamo chiesti se fosse il caso di mettersi in coda per vedere le grotte. C’era una fila molto lunga e sembrava tutto molto turistico. Poi ci siamo detti che ormai eravamo lì, tanto valeva entrare. Il biglietto costa 60 dirham (6 €), e a posteriori non saprei dire se ne valga la pena. La grotta principale è molto ampia e alta, con un’apertura verso l’oceano la cui forma ricorda quella del continente africano. Ci sono degli anfratti laterali, pavimentati e illuminati. All’uscita, sulla destra, c’è un’altra grotta più piccola in cui non siamo entrati perché c’era troppa gente.

Il nome delle grotte deriva da una leggenda secondo cui Ercole avrebbe dormito qui prima di affrontare la sua undicesima e penultima fatica: raccogliere le tre mele d’oro dal giardino delle Esperidi.

Nel complesso la gita è una bella occasione per vedere questo tratto di costa e passare una giornata all’aperto. Al ritorno i taxi collettivi per Tangeri aspettano i passeggeri sul piazzale all’uscita dalle grotte. Ho chiesto a Thomas: “Torni a piedi?”. Si è messo a ridere: “Per 15 dirham vengo volentieri in taxi”.

Perdersi a Tétouan

A Tétouan mi sono persa subito, appena fuori dalla stazione degli autobus. Google Maps mi diceva di procedere a destra, lungo una strada che sembrava allontanarsi dal centro. Ero dubbiosa, ma andavo avanti, non sapendo bene che altro fare.

“Dove vuoi andare?” ha chiesto d’un tratto una voce alle mie spalle. Mi sono voltata: era l’addetto alle valigie della stazione degli autobus. L’avevo visto al lavoro pochi minuti prima e ora, inspiegabilmente, era lì dietro di me. Portava una pettorina con il nome della compagnia.

“Voglio andare in rue Ahfir, nella medina” ho risposto, mostrandogli la mappa sul telefono.

“Non è qui. Devi salire là sopra” ha detto, indicando le scale che portano alla zona alta della città attraverso un piccolo giardino.

L’ho ringraziato, pensando che se ne andasse, ma ha voluto a tutti i costi accompagnarmi. Mi ha detto il suo nome, Mustafa, e la sua età, 24 anni. Siamo arrivati davanti a una grande piazza vuota, presidiata da decine di soldati con il fucile spianato. “Quello è il palazzo reale” ha detto Mustafa indicando un edificio bianco. “Il re è qui in vacanza in questi giorni”. “Oh, anche lui!” ho esclamato, e abbiamo riso. Le transenne impedivano l’accesso alla piazza e restringevano il passaggio, creando un ingorgo davanti a Bab Rouah, la porta della medina. Erano le sei del pomeriggio, i negozi erano aperti e c’era gente dappertutto. Mustafa mi ha guidata attraverso i vicoli fin sulla porta dell’ostello. Lo seguivo pensando a quanto tempo ci avrei messo per arrivarci da sola. Google Maps non funziona bene in queste viuzze. Prima di salutarci ci siamo messi d’accordo di rivederci l’indomani per un caffè. Glielo dovevo.

L’ostello ha un nome difficile da pronunciare, Tarbi’aat, ed è un bellissimo palazzo del Settecento con un patio centrale e una terrazza sul tetto. L’unico problema è ritrovarlo nel dedalo della medina. Nei giorni successivi mi sono persa tre volte, di cui una di notte. Ho dovuto chiedere aiuto ai passanti. Poi ho imparato, ma ci ho messo un po’.

Perdersi ha anche i suoi lati positivi: girare senza meta per la medina è il modo migliore per esplorare Tétouan. Ci sono vie piene di negozi e di gente, altre con file di botteghe artigiane, altre tranquille e silenziose, come le vie che da Bab al Okla vanno verso Bab Saïda, la mia zona preferita.

Vicino a Bab al Okla, in un bel palazzo sulle mura, c’è un museo etnografico dedicato alle tradizioni e alle usanze del Marocco del Nord, con i mobili, i tappeti, i ricami, le ceramiche, gli abiti tradizionali, il vasellame e gli utensili usati nelle campagne.

Fuori dal museo ho incontrato Noureddin, che ha insistito per farmi da guida. Sapevo che avrei dovuto pagarlo, gli ho chiesto quanto voleva. Mi ha sparato una cifra esagerata. Gli ho proposto la metà. Ha accettato. Mi ha portato a Mellah, il quartiere ebraico. Alla sinagoga il rabbino mi ha detto che fino alla fine degli anni Quaranta c’erano dodicimila ebrei a Tétouan, discendenti dei sefarditi che si rifugiarono qui dopo essere stati cacciati dalla Spagna nel 1492. Ora sono rimasti solo in otto. Gli altri sono emigrati in massa un po’ ovunque, soprattutto in Israele.

Fuori dalla medina si estende la città nuova edificata dagli spagnoli negli anni del protettorato (1913-1956). È bella, con le sue case bianche e le piazze alberate. C’è ancora il cinema spagnolo e la chiesa cattolica dipinta di giallo.

Sembra una città ricca, ma Noureddin dice che non c’è lavoro. Lui ha sessant’anni e non ha mai lavorato in vita sua. Accompagna in giro i turisti, anche se non è una guida. Ha due figlie piccole, di dieci e otto anni. Si è sposato tardi. Per un disoccupato è difficile trovare moglie.

Anche Mustafa, quando passa a trovarmi, si lamenta del lavoro. Guadagna 2850 dirham al mese, circa 280 euro, come molti in Marocco. È poco. E poi non ha stimoli: per un ragazzo di ventiquattro anni non è certo il massimo caricare e scaricare valigie dagli autobus in partenza e in arrivo. Vorrebbe andare in Europa, ma non può ottenere il visto perché non ha un buon lavoro né un buon conto in banca. Adora il calcio, è un ultrà del Tétouan. Ha viaggiato per il Marocco al seguito della sua squadra del cuore.

Volevo offrirgli un caffè al bar, ma ha insistito per restare sulla terrazza dell’ostello. Da qui si vede tutta la città, che si estende, bianca e affascinante, ai piedi delle montagne del Rif. “Mi piace questo posto” dice Mustafa. “Se non ti avessi conosciuta non ci sarei mai venuto”.

Alla fine ho scoperto che la strada indicata da Google Maps per arrivare all’ostello non era sbagliata, era solo molto più lunga. Il navigatore non tiene conto delle scalinate, che in queste cittadine sono la scorciatoia più diffusa.

A Meknès dove non pensavo di andare

Dal punto di vista turistico Meknès è penalizzata dal fatto di essere molto vicina a Fès, che è più grande e attrae più visitatori. Io stessa a metà luglio l’avevo saltata per andare direttamente a Marrakech. Poi, un mese più tardi, sulla via del ritorno verso Tangeri, ho deciso di fermarmi per un paio di giorni, per un unico motivo: volevo incontrare una famiglia di Bologna che avevo conosciuto per caso tre anni fa a Velia, in Cilento. Sapevo che sarebbero arrivati a Meknès l’11 agosto e ci siamo accordati per vederci là.

Ho preso il treno da Marrakech, un’impresa epica. In quei vecchi vagoni l’aria condizionata funziona poco e male. Fuori c’erano 45 gradi e i finestrini erano sigillati. Si moriva di caldo. Ci abbiamo messo più di sette ore per arrivare.

Nell’ostello in cui avevo prenotato c’era una festa di nozze con musica assordante. Non c’era neanche un ventilatore e il caldo era atroce. “Cominciamo bene” ho pensato. Ma la città mi ha fatto subito una buona impressione. Era venerdì, giorno sacro per i musulmani, e tutti i negozi della medina erano chiusi. Per le strade c’era quiete.

La sera ho incontrato gli amici di Bologna. Enea aveva undici anni quando l’ho conosciuto. Ora ne ha quattordici ed è diventato un gigante. I suoi genitori, Claudia e Massimo, sono come li ricordavo: due persone che mi sembra di conoscere da una vita. Avremmo potuto rivederci a Bologna o a Torino, ma vuoi mettere la gioia di ritrovarsi in viaggio?

Ci siamo messi d’accordo di vederci la mattina dopo per visitare la città, ma in questo periodo le principali attrazioni di Meknès – Bab Mansour, la piazza El Hadim e l’adiacente mercato coperto – sono in restauro. Il centro è un gigantesco cantiere.

Restano aperti ai visitatori il Mausoleo di Moulay Ismaïl, il sultano che tra il Seicento e il Settecento scelse Meknès come sua capitale, dotandola di mura, giardini e palazzi, e il Museo Dar Jamai, ospitato in un bellissimo palazzo ottocentesco, che espone strumenti musicali di ogni parte del paese, oltre a registrazioni e documentari sulla musica rurale e cittadina, la danza e la poesia cantata.

Anche qui, come in altre città del Marocco, la medina è uno spettacolo a sé. Si vedono gli artigiani al lavoro nelle loro botteghe e negozi che vendono di tutto, dai rocchetti di filo ai pannelli di legno intagliato. Le foto sono di Massimo; io sono troppo impegnata a chiacchierare con Claudia.

Meknès è così poco turistica che la sera non si trovano molti posti dove mangiare. Ceniamo al ristorante Aisha, nella medina, dove assaggiamo un tipico piatto del Maghreb: la r’fissa, a base di msemmen (crêpe marocchina), cipolle, zenzero, coriandolo e fieno greco, servita con carne o uova. Buonissima!

Il mattino dopo mi alzo alle sette e vado a fare un giro da sola. Claudia, Massimo ed Enea sono partiti per Fès. Ci siamo ripromessi di vederci in Italia.

Al mattino presto, con le botteghe ancora chiuse e poche persone in giro, Meknès sembra un’altra città. Le strade sono ancora fresche, i galli cantano e i colori pastello delle case invitano a spingersi un po’ più in là.

Più tardi, mentre viaggio sull’autobus diretto a Tètouan, mi incanto a guardare il paesaggio appena fuori Meknès. La città sorge su un altopiano circondato di colline. I campi conservano il colore dorato del grano mietuto da poco. Sulle strade circolano autocarri stracolmi di balle di paglia. Gli ulivi punteggiano la campagna di verde argentato. È bello. Sono contenta di essere venuta a Meknès. Grazie a Claudia, Massimo ed Enea per avermi richiamata qua.

Hotel Suerte Loca

Dopo il tour nel deserto sono tornata sull’oceano a Sidi Ifni. La prima visita, troppo breve, non mi era bastata: mi era rimasta addosso la voglia di fermarmi di più. Più di tutto, avevo voglia di tornare all’Hotel Suerte Loca e di rivedere Malika e Fatma, le due sorelle che lo gestiscono. Con loro si sta bene: parlano cinque lingue, cucinano meravigliosamente e ti accolgono con quella semplicità senza cerimonie che ti fa sentire a casa.

Sono arrivata alle undici di sera con l’autobus da Marrakech. Era buio, ma c’era un sacco di gente in giro, come sempre. In Marocco tutti escono e fanno tardi la notte, con i bambini piccoli e i nonni al seguito. Per le strade quasi non si cammina.
Mentre attraversavo l’incrocio davanti al mercato mi sono sentita chiamare: “Ciao Laura!”.
Ho pensato di aver sentito male, ma là vicino al semaforo c’era Malika che mi sorrideva.
“Hai fatto buon viaggio?” mi ha chiesto in italiano.
“Sì, grazie!”
“Bentornata! Mia sorella ti sta aspettando”.
È stato bello camminare fino all’Hotel Suerte Loca senza guardare la mappa. I miei piedi sapevano la strada.

Costruito nel 1936 da una famiglia spagnola di Cordóba che l’ha gestito per oltre trent’anni, l’albergo è stato rilevato nel 1969 dal padre di Malika e Fatma, che aveva cominciato a lavorare lì appena quattordicenne. L’edificio conserva intatto il suo fascino andaluso, con le piastrelle colorate che decorano gli spazi interni e gli ampi balconi. Le stanze sono semplicissime, i bagni spartani, ed è tutto molto pulito e gradevole.

Sulla terrazza affacciata sull’oceano c’è una costruzione bassa con una serie di divani addossati alle pareti: il tipico salon marocchino, il luogo in cui si ricevono amici e parenti per chiacchierare e prendere il tè. In questa stanza si può dormire per 9 euro a notte. I divani sono duri e un po’ stretti, ma è bellissimo svegliarsi al mattino con il rumore delle onde e la bruma che sale dall’Atlantico.

Hotel Suerte Loca potrebbe essere il titolo di una saga popolata di personaggi femminili. Malika e Fatma mandano avanti l’albergo con l’aiuto di una ragazza che viene al mattino a dare una mano per le pulizie. La colazione a base di crêpes marocchine dolci e salate è rinomata a Sidi Ifni, e i loro piatti di pesce sono leggendari: vellutata di pesce e zucca, tajine di polpo, sardine fritte con prezzemolo, aglio e cumino, che Malika ha ribattezzato “sardine innamorate”.

Le due sorelle si alternano ai fornelli. Entrambe sono restie a farsi fotografare, ma sulla pagina Facebook dell’albergo c’è un ritratto di Malika davanti a un piatto di cous cous preparato da lei.

A Fatma ho scattato una foto a tradimento mentre era in cucina. Lei lo sa, gliel’ho fatta vedere. Ha detto che andava bene perché è un po’ sfuocata.

L’albergo non è pieno, siamo in bassa stagione. Qui vengono tutti d’inverno per il surf. Ci sono due ragazzi marocchini che sono arrivati in bici pedalando lungo la costa da Essaouira. C’è una coppia di francesi in pensione che vive in un villaggio berbero dell’interno ed è venuta a passare qualche giorno al fresco sulla costa. Lei è una ex maestra elementare, e da quando si è trasferita in Marocco dà lezioni di francese ai bambini e agli adulti del villaggio.

C’è Giorgia, che è di Roma e vive a Genova, dove lavora per un tour operator. Si è portata dietro il computer e lavora su un divano in corridoio, mentre il suo compagno e un amico vanno in spiaggia.

C’è Thais, una brasiliana cinquantenne che è andata a vivere a Merzouga, nel deserto, per amore di un uomo marocchino, che poi ha lasciato perché beveva troppo.

C’è Tina, una tedesca di 65 anni che lavora pure lei come maestra elementare. Ha perso una gamba per un incidente in montagna in Val d’Aosta quando aveva 28 anni, ma non ha mai smesso di viaggiare. Si porta sempre dietro una gamba di riserva e un paio di stampelle, perché non si sa mai. Vive a Berlino nel quartiere multietnico di Kreuzberg e racconta storie straordinarie. Una volta ospitò a casa sua un immigrato sudanese che non aveva un posto dove andare. Doveva fermarsi per due settimane, rimase per otto mesi. “Il miglior coinquilino che abbia mai avuto, tranquillo e ordinatissimo” racconta ridendo. Alla fine il sudanese andò a lavorare in Polonia, chiamato da un connazionale, e Tina lo aiutò a passare illegalmente il confine. Una ragazza polacca si innamorò di lui e, dopo mille peripezie, riuscì a sposarlo. Ora vivono insieme in Polonia e hanno avuto un figlio. Presto Tina andrà a trovarli.

Sembra un romanzo di Gioconda Belli, però allegro, con i profumi del cibo che salgono dalla cucina e le storie degli ospiti che si intrecciano. È l’Hotel Suerte Loca, un posto magico.

A Sidi Ifni non c’è molto da vedere, oltre il centro coloniale e la spiaggia. Nelle cittadine dell’interno in questa stagione si muore di caldo, e Mirleft, più a nord sulla costa, è un posto insignificante. A metà strada c’è la spiaggia di Legzira con le sue grotte e archi di pietra da visitare in giornata. Per arrivarci si prende un minibus da Sidi Ifni, sullo spiazzo davanti al mercato. Ci vogliono meno di venti minuti.

Ma per il resto è bello restare all’Hotel Suerte Loca per leggere sulla terrazza, fare due chiacchiere e guardare il sole che tramonta sull’oceano.

Un tour nel deserto

Vado o non vado nel deserto? Fin dal mio arrivo in Marocco me lo sono chiesta molte volte, valutando i pro e i contro di un viaggio nel Sahara in piena estate. Uno dei principali argomenti a sfavore è il caldo, che in agosto nelle zone interne sfiora i cinquanta gradi. L’altro è la distanza: per arrivare da Marrakech alle dune di Merzouga, vicino al confine algerino, bisogna viaggiare in auto per circa dieci ore. Con i mezzi pubblici significa prendere un bus Supratour da Marrakech a Merzouga che ci mette 15 ore.

L’argomento più forte a favore era che volevo rivedere il Sahara. La mia prima e unica volta era stata trentacinque anni fa, nell’oasi di Ksar Ghilane in Tunisia: dormire fra le dune sotto il cielo stellato era stata un’esperienza esaltante, e ancor di più svegliarmi all’alba e camminare da sola nella vastità di quel paesaggio mistico.

Alla fine ho deciso di andarci con un tour organizzato di tre giorni da Marrakech, per risparmiare tempo, fatica e colpi di calore. Ho prenotato online su GetYourGuide l’escursione chiamata Tour di 3 giorni alle dune di Erg Chebbi, che costa circa 100 euro e comprende il viaggio su un minibus da 17 posti con aria condizionata, due pernottamenti, due escursioni sui dromedari e trattamento di mezza pensione.

Si parte alle 7.30 del mattino da Marrakech, vicino al proprio albergo od ostello. Il luogo dell’appuntamento viene comunicato via email il giorno prima dall’agenzia. La lingua del tour è a scelta fra inglese, spagnolo, francese e arabo, ma l’assortimento dei passeggeri è abbastanza casuale: io avevo scelto l’inglese e mi sono ritrovata con due filippini, quattro australiani e sei spagnoli che non parlavano inglese. Una mia amica aveva scelto lo spagnolo, e si è ritrovata in un bus di francesi. Comunque, gli autisti se la cavano con tutte le lingue.

Il nostro autista è un uomo sui quarant’anni che interagisce con noi il minimo indispensabile, come se volesse ribadire in modo chiaro che non è una guida. Quando si ferma per una sosta si volta appena e grida: “Guys, ten minutes stop!”. Nient’altro. Non sappiamo come si chiama, non si è presentato. Porta gli auricolari e parla per ore al telefono con qualcuno, chissà chi. Forse un altro collega con tanto tempo da riempire mentre guida un bus carico di turisti. Quando non è al telefono mette musica reggaeton, osannato dai ragazzi spagnoli.

Un paio d’ore dopo Marrakech la strada sale sulle montagne dell’Atlante, il paesaggio più bello di tutto il percorso, dove il verde della vegetazione cede il passo alle rocce rosse punteggiate di radi cespugli. La montagna è friabile, soggetta a frane nei periodi in cui piove molto. Ai lati della strada grandi escavatori gialli sono al lavoro per ampliare la carreggiata e riparare i danni. Ci si ferma per ammirare il paesaggio dall’alto nei pressi del Colle di Tichka a 2260 metri di quota.

Verso mezzogiorno, sotto il sole a picco, arriviamo a Aït-Ben-Haddou, un antico villaggio berbero su una collina davanti a un fiume completamente asciutto. Una guida ci aspetta per accompagnarci fra i vicoli fino alla fortificazione in cima. Fa così caldo che mi sento svenire. I muri delle case, di argilla, hanno lo stesso colore del terreno. La popolazione si è spostata nella parte nuova, al di là del fiume, dove le case sono di cemento. Qui si vive essenzialmente di turismo e di cinema. Il villaggio è stato lo sfondo di oltre trenta film, da Lawrence d’Arabia al Gladiatore 1 e 2. Nel 1967 Pasolini ci ha girato il suo Edipo Re. La guida, un uomo bello sui trent’anni con turbante e djellaba azzurri, racconta con fierezza di aver fatto la comparsa in molti film importanti. “Durante la pandemia però è stata dura. Niente turisti e niente cinema. Ci siamo dovuti rimettere a coltivare”.

Per la visita bisogna pagare alla guida 30 dirham (3 euro) per un fantomatico ingresso, più un’offerta libera, il che mi crea sempre imbarazzo. Quanto dare? Lascio in tutto 50 dirham, anche perché il tour finisce in un negozio di souvenir dove ti pressano a comprare una costosa sciarpa blu cobalto da avvolgere intorno alla testa durante il tour nel deserto. La chiamano “il passaporto”, come se fosse indispensabile, ma non lo è: va benissimo qualsiasi sciarpa. Il pranzo, a pagamento, è in un posto caro dove ci sono solo menu a prezzo fisso. Decido di dividerlo con una ragazza spagnola, la quantità è più che sufficiente. Il tutto sa di trappola per turisti, una sensazione sgradevole.

Anche la città successiva, Ouarzazate, ha un forte legame con il cinema. Lungo la strada sorgono i teatri di posa denominati Atlas Studios e in centro, di fronte alla kasbah, c’è un piccolo museo del cinema. Sulle alture brulle fuori città sono state girate le strazianti scene di Babel, il film di Iñárritu in cui un ragazzo che pascola le capre ferisce gravemente una turista americana sparando per gioco contro un autobus molto simile a quello su cui viaggio io.

Il paesaggio fuori dal finestrino è un deserto di argilla e sassi. Verso le cinque arriviamo a Tinghir, dove ci fermiamo per la notte al Bougafer Hotel, un complesso anni Ottanta molto grande e mezzo vuoto, con una piscina in cui nuotano uomini e ragazzini, mentre le donne stanno sedute ai tavolini, coperte da capo a piedi, con in braccio i bambini più piccoli. Vorrei fare il bagno per rinfrescarmi, ma non oso mettermi in costume. Alle nove si cena, e il cibo – insalata marocchina e tajine di polpette – è molto buono.

Ho scoperto che l’autista si chiama Youness. Gliel’ho chiesto mentre scaricava il mio zaino dal furgone. I miei compagni di viaggio sono tutti molto giovani: gli spagnoli sono di Alicante, tutti maschi, e hanno diciannove anni; gli australiani – tre ragazze e un ragazzo – sono di Brisbane e sono poco più grandi; i due filippini, infermieri in Gran Bretagna, sono sui trent’anni. Sono l’unica che viaggia da sola, l’unica fuori età, e mi sento un po’ isolata. Ma è normale, l’avevo messo in conto.

Il mattino dopo si riparte alle nove, subito dopo colazione, con una sosta al lato della strada per vedere la vecchia medina di Tinghir, ora abbandonata. Anche qui le vecchie mura sembrano sorgere dalla terra di cui sono impastate.

Poco sopra Tinghir una guida ci preleva per portarci a piedi nell’oasi alimentata dalle acque del fiume Todra. Si cammina all’ombra di mandorli e fichi, fra piccoli appezzamenti coltivati a pomodori, mais, cavoli ed erba medica, con le pareti a strapiombo delle Gole del Todra che si restringono sempre di più.

Al fondo, dove finisce la strada asfaltata, le pareti quasi si toccano. È un posto piacevole e ventilato, dove si apprezza la presenza delle piante, così rare da queste parti.

Immancabile la sosta dai venditori di tappeti, che srotolano le loro creazioni davanti a noi con la speranza di venderci qualcosa. Sono tappeti bellissimi, fatti a mano da una cooperativa di donne berbere, ed è imbarazzante stare lì a guardare sapendo che nessuno di noi comprerà nulla. Non certo io, con il mio zaino già pieno, né i sei spagnoli diciannovenni, né i quattro australiani che hanno poco più di vent’anni e un lungo viaggio davanti a sé. Ma ecco che avviene il miracolo, il motivo per cui alla fine questa strategia paga: sono i due filippini a decidere di comprare. Hanno scelto un tappeto bianco con un motivo nero a rombi.

Arriviamo a Merzouga, la nostra meta finale, alle cinque del pomeriggio. Le dune del Sahara cominciano proprio di fronte a noi, oltre le ultime case del paese. Fuori ci sono 48 gradi. L’Hotel La Sorce ha una piscina dove mi butto immediatamente, giusto il tempo di infilarmi il costume. Alle sette ci sarà la passeggiata a dorso di dromedario, una di quelle cose che mi fanno sentire un’idiota.

I dromedari fanno un verso di protesta quando si sollevano da terra con un turista in groppa. Non ne hanno voglia, è evidente. Il posto non è lontano, potremmo benissimo andarci a piedi. Ma partiamo tutti in carovana, con le nostre costose sciarpe color cobalto, come se dovessimo andare fino in Libia.

L’ora del tramonto con la sua luce rossa è bellissima fra le dune. Penso che sono fortunata, sono riuscita ad arrivare dove volevo.

Mohammed, l’uomo che guida la nostra fila di dromedari, non è altrettanto fortunato: il suo sogno è andare in Italia, ma non può. Non ha i documenti necessari. Dice che a Merzouga non c’è lavoro. Lui ha comiciato da qualche giorno con i dromedari, che non sono suoi, ma guadagna poco. Durante la pandemia ha fatto il minatore sulle montagne, e ne parla con orrore. Qui, come in molti altri posti del mondo, si capisce perché molti siano disposti a rischiare la vita per emigrare.

La sera si cena nell’accampamento sulle dune e si dorme sotto le stelle, con i materassi tirati fuori dalle tende. Io mi addormento direttamente sulla sabbia, con la testa sullo zaino.

Il giorno dopo la sveglia è alle cinque per un altro giro sui dromedari, che ci portano a vedere l’alba, ma io stavolta vado a piedi. Torniamo in albergo per una doccia e per la colazione, poi partiamo alle otto per Marrakech. Youness dovrà guidare per dieci ore di fila, a parte la sosta per il pranzo. Gli chiedo se domani ripartirà con un altro gruppo. Risponde di sì: lavora sette giorni su sette, senza un giorno di riposo, tranne nei periodi in cui ci sono meno turisti, quando fa una pausa ogni due settimane. Mi sento una privilegiata, con i miei weekend e le vacanze estive. Ci sono molti posti nel mondo dove le persone lavorano sempre.

Arriviamo a Marrakech alle otto, come previsto. Youness mi guarda dallo specchietto retrovisore e ridendo mi chiede se domattina voglio ripartire con lui per il Sahara.

Il passato spagnolo di Sidi Ifni

Sidi Ifni, una cittadina di ventimila abitanti nel sud del Marocco, è stata sotto il controllo degli spagnoli per oltre cento anni, dal 1860 al 1969. Alla fine degli anni Trenta, per iniziativa del dittatore Francisco Franco, diventò il centro politico dell’Africa occidentale spagnola. I segni del passato coloniale sono ancora visibili e contribuiscono al suo fascino un po’ decadente: intorno alla piazza Hassan II e lungo la via omonima si concentrano una serie di edifici Art Déco e che oggi hanno cambiato funzione o sono in rovina.

C’è la chiesa, con il suo campanile che ricorda il minareto di una moschea.
Il palazzo del Governatore con i suoi giardini curati.
Il palazzo comunale.
L’ex consolato spagnolo, abbandonato e con le finestre murate.
Il Bellevue Hotel, tuttora in funzione.
Il cinema Avenida, in parte occupato da una tintoria.

Il Twist Club, in rovina.

Oggi Sidi Ifni è una cittadina che vive di pesca e, in minima parte, di turismo. La sua ampia spiaggia attrae i villeggianti marocchini, che vengono qui per stare al fresco quando il caldo dell’interno diventa insopportabile. D’estate la temperatura supera di poco i venti gradi, si sta benissimo. Non ci sono surfisti in questo periodo: le onde sono migliori in inverno. È il periodo ideale per passeggiare sulla spiaggia e godersi l’atmosfera rilassata delle lunghe giornate estive avvolte dalla bruma dell’oceano.

Io sono arrivata qui da Essaouira con un autobus CTM, ed è stata una vera avventura. Avevo una coincidenza ad Agadir, che ho perso perché il bus era in ritardo. Per puro caso fra i passeggeri c’era Didi, un ragazzo marocchino che avevo conosciuto a Tangeri. È stato lui a segnalare il mio problema all’autista e ad accompagnarmi all’agenzia per aiutarmi a trovare una soluzione. Ma l’uomo allo sportello ha scosso la testa: avrei dovuto aspettare l’indomani, non c’erano altre partenze in serata. In quel momento è arrivato di corsa l’autista e mi ha detto che mi avrebbe portata fino alla fermata successiva, dove il bus per Sidi Ifni mi stava aspettando. Aveva chiamato il suo collega e si erano messi d’accordo. È andato tutto come previsto: il bus era là, mi ha raccolta e siamo partiti. Così sono riuscita ad arrivare in serata.

E dove alloggiare a Sidi Ifni se non all’Hotel Suerte Loca, il cui nome significa “fortuna pazzesca”, gestito da due sorelle che cucinano benissimo e dove un letto nel dormitorio affacciato sull’oceano costa 9 euro a notte?

Essaouira la ventosa

A Essaouira d’estate fa fresco perché soffia sempre il vento. La città fondata nel Settecento dal sultano Sidi Mohammed Ben Abdallah come sbocco sull’oceano per Marrakech è ora la meta ideale per gli appassionati di kitesurf. A me, che non amo gli sport acquatici, ha offerto una tregua dal caldo torrido dell’interno. Quando cala il sole fa persino freddo, e di notte si dorme con la coperta.

Erano anni che sognavo di vedere questa città leggendaria, con la sua medina bianca dentro la cerchia ocra delle mura a picco sull’Atlantico. Un luogo speciale per me, come Machu Picchu e il Rio delle Amazzoni. Prima di diventare dei luoghi reali, le mie mete di viaggio sono sogni a occhi aperti. Essaouira non mi ha deluso: ci sono rimasta una settimana.

L’Essaouira Beach Hostel, dove sto io, è frequentato da surfisti di mezzo mondo. La terrazza sul tetto è un posto magnifico in cui rilassarsi, chiacchierare o stare lì senza far niente, godendosi la luce e la vista sulla spiaggia. Io faccio provvista di fresco in attesa di trovare il coraggio di andare nel deserto, dove mi aspettano temperature roventi.

La medina di Essaouira brulica di turisti marocchini e stranieri. Lungo le strade principali si susseguono senza interruzione negozi, hotel e locali. Come tutte le medine del Marocco, sta perdendo abitanti per la pressione delle strutture turistiche, che fanno lievitare i prezzi delle case.

Le persone del posto scantonano nei vicoli e confluiscono nella zona del mercato nei pressi di Bab Boukkala, la più interessante, con le bancarelle di frutta e verdura, le macellerie, i venditori di pane e la piazza dei pescivendoli circondata da piccoli ristoranti dove si può mangiare il pesce arrostito al momento.

Un altro posto pieno di vita è il porto, dove al mattino i pescatori scaricano e puliscono il pesce e poi si riposano sui mucchi di reti. I gabbiani aspettano la loro parte e si gettano strepitando sugli scarti. Le bancarelle sul molo vendono ogni giorno il pesce fresco, ed è qui che conviene comprarlo.

I gatti prosperano fra tanta abbondanza di pesce. Ce ne sono tantissimi, sia al porto sia per le strade della medina, e non sono certo animali da salotto, ma creature selvatiche abituate a lottare per sopravvivere.

Dai bastioni si gode un’ottima vista sulla città e sull’oceano. Ce ne sono due: la Sqala de la Ville, a cui si accede gratuitamente dall’interno della medina, e la Sqala du Port, a pagamento, con accesso dopo la cancellata del porto.

Nel piccolo museo intitolato al fondatore della città, Sidi Mohammed Ben Abdellah, non c’è molto da vedere, ma alcuni pannelli spiegano l’importanza dell’argan nell’economia di questa regione: gli alberi di argan, con i loro rami spinosi, offrono cibo alle capre e producono un frutto con semi molto duri da cui si ricava un olio usato per la cosmesi e l’alimentazione. Con l’olio di argan, il miele e le mandorle tritate si prepara l’amlu, una prelibatezza locale da spalmare sul pane.

Sulla spiaggia, lunghissima, fervono le attività sportive: kitesurf, windsurf, equitazione e passeggiate a dorso dei dromedari. Per il surf vero e proprio è meglio venire d’inverno, quando le onde sono più alte. È impossibile stare sdraiati sulla sabbia a prendere il sole: c’è troppo vento.

La scogliera sotto le mura è un bel posto per camminare al tramonto, ma purtroppo è piena di bottiglie di plastica, cocci di vetro e sacchetti che volano al vento. In Marocco i rifiuti sono sparsi ovunque. Le pattumiere sono poche, ed è ancora molto radicata l’abitudine di gettare i rifiuti a terra. Una squadra di netturbini in gilet arancione percorre la spiaggia avanti e indietro cercando di tenerla pulita: un’impresa titanica.

A Essaouira sono andata alla ricerca di un parrucchiere per la tinta e la spuntatina di metà viaggio. L’ho trovato in un vicolo della medina, un negozio minuscolo con le pareti dipinte di arancione. Morad il parrucchiere, inequivocabilmente gay, mi ha applicato la tinta in modo sommario, come se non l’avesse mai fatto in vita sua. Mentre ero lì ad aspettare che il colore si fissasse sono arrivate due donne, forse madre e figlia, forse sorelle, con i capelli bagnati sotto il velo. Capelli color mogano, lunghi e ondulati, bellissimi. Li avevano lavati in casa, erano venute a farsi la piega. Era un momento intimo fra donne. Io ero un po’ in ansia per la tinta: mi sembrava che Morad non me l’avesse fatta bene. “Se non sei soddisfatta torna domani, te la sistemo” mi ha detto quando l’ho pagato. E infatti il giorno dopo sono tornata, perché all’ostello mi sono accorta che mi aveva combinato un disastro: la tinta era stata applicata male, l’effetto era a macchia di leopardo. Il secondo tentativo è andato meglio, ho ottenuto anche una spuntatina omaggio.

Essere derubata in viaggio

È  successo al rifugio del Caf, la sera prima dell’ascesa al Toubkal, probabilmente mentre ero a cena, o subito dopo, mentre ero fuori sul piazzale a fare due chiacchiere con un ragazzo marocchino che vive a Verona. Il portafoglio, insieme al passaporto e al cellulare, era nella tasca superiore dello zaino, e io ho lasciato lo zaino nel dormitorio invece di portarlo con me, come faccio sempre. Ho abbassato la guardia, forse perché tendo a fidarmi troppo della gente che va in montagna. Mentre ero fuori dalla stanza, qualcuno ha aperto lo zaino e si è portato via tutti i soldi che avevo, circa duecento euro in valuta locale, più la tessera del bancomat.

Non mi sono accorta di niente fino al giorno dopo, quando, dopo aver scalato la cima del Toubkal, sono andata alla reception per pagare il rifugio. È stato un vero shock scoprire che il mio portafoglio era completamente vuoto! Non mi era rimasto neppure un dirham. Come avrei fatto a saldare il conto con il rifugio, con Said che mi aveva guidato fin lì, e con Hassan, il proprietario della gîte di Imlil dove soggiornavo? Più di tutto, mi preoccupava la sparizione del bancomat, senza il quale non avrei più potuto prelevare. Ero a metà del mio viaggio ed ero completamente senza soldi.

Per fortuna Martin, il francese con cui ero partita da Imlil, si è offerto di pagare il rifugio per me, ma non aveva abbastanza dirham per dare a Said anche la mia quota. Mentre scendevo con loro verso Imlil ragionavo fra me per trovare una soluzione. Avrei potuto chiedere a mia figlia di mandarmi dei soldi tramite Western Union, ma non sapevo quanto tempo ci avrei messo a riceverli. Oppure avrei potuto provare a prelevare con la carta di credito, ma non ricordavo il pin: non l’avevo mai usata come bancomat. Fra l’altro, a Imlil, dove alloggiavo, non ci sono banche: per trovare uno sportello automatico bisogna scendere fino ad Asni, e io non avevo neanche i soldi per il bus.

La cosa che più mi faceva sentire male era il debito con Said, che mi aveva accompagnata con pazienza per due giorni. Al momento di congedarmi da lui gli ho offerto la mia macchina fotografica come garanzia che l’avrei pagato al più presto, ma lui non l’ha voluta: mi ha detto che si fidava della mia parola. Gli dovevo 400 dirham (40 euro). Martin, dal canto suo, aveva bisogno che gli restituissi la somma che mi aveva anticipato, altrimenti non sarebbe riuscito a pagare la gîte dove avrebbe passato la notte. E il giorno dopo, nel primo pomeriggio, sarebbe partito per Marrakesch. Non mi restava molto tempo per trovare il denaro.

Ero stanchissima per la scalata al Toubkal e non sapevo cosa fare. Era quasi sera, e l’unica mossa possibile a quell’ora era bloccare il bancomat, cosa che ho fatto non appena ho avuto accesso a Internet.

Di ritorno alla gîte, ho spiegato la situazione ad Hassan, chiedendogli se poteva prestarmi 50 dirham (5 euro) per mangiare qualcosa e prendere il bus l’indomani. Me li ha dati subito.

Più tardi mia figlia Anna, con cui ho parlato via Whatsapp, mi ha detto che il pin della carta di credito è visualizzabile nell’app della banca. E infatti l’ho trovato.

Ero un po’ in ansia perché non ero sicura di riuscire a prelevare, ma il giorno dopo ad Asni il bancomat ha fatto tutti i passaggi previsti e alla fine click! ha sputato i soldi.

Così ho potuto saldare i miei debiti con Said, Martin e Hassan, e ho risolto il problema di come proseguire il viaggio.

In tanti anni che giro per il mondo, è la prima volta che mi capita di essere derubata. Non mi è successo in Brasile, né in Colombia, né in altri paesi considerati a rischio. Sono stata sempre fortunata, ma anche molto attenta: ho uno zaino piccolo  con tutte le cose importanti (passaporto, soldi, bancomat, cellulare, carta di credito) e lo porto sempre con me, anche quando vado in bagno. È stato stupido da parte mia lasciare lo zaino incustodito nel dormitorio del rifugio. Tra l’altro, avrebbero potuto rubarmi anche il telefono e il passporto, causandomi guai peggiori.

Mi spiace di aver perso tutti quei soldi: in viaggio cerco sempre di risparmiare, e poi d’un colpo mi sono fatta portare via 200 euro. Ma sono contenta per come ho reagito: non ho perso la testa e ho cominciato subito a cercare una soluzione. Ho provato fiducia e gratitudine per tutti quelli che mi hanno aiutato – Martin, Said, Hassan, Anna – e ho sentito che, anche se viaggio da sola, non sono mai veramente sola.

Sulla cima del Toubkal

A Imlil, nell’Alto Atlante, si viene per salire sul Jbel Toubkal, la vetta più alta del Nord Africa (4167 m).

Da Marrakesh, la città più vicina, non ci sono trasporti di linea. La maggior parte degli escursionisti arriva a Imlil con gli autobus dei tour organizzati. Io ho preso un minibus locale dal parcheggio dei grand taxis accanto al Jardin Sidi Mimoum a Marrakesh. Si paga in anticipo la tariffa completa fino a Imlil (50 dirham, 5 euro), ma durante il viaggio può capitare di dover fare un trasbordo su un altro mezzo. Non ci sono orari, i minibus partono quando sono pieni, o meglio, strapieni. Sono vecchi Mercedes tedeschi ridipinti di verde che si fermano continuamente per raccogliere passeggeri. A me piace viaggiare così: guardo il paesaggio e osservo le persone del posto senza timore di sentirmi indiscreta.

Da Marrakesh a Imlil ci sono soltanto 67 km, ma tra trasbordi e attese possono volerci più di tre ore. Qualche giorno dopo ho scoperto che avrei potuto prendere un comodo taxi condiviso che ci mette un’ora e costa anche meno (35 dirham). Quelli del minibus mi hanno sicuramente fatto pagare più del dovuto.

A Imlil non avevo prenotato niente perché sulle piattaforme che uso di solito, Hostelworl e Booking, non avevo trovato soluzioni economiche. Appena sono entrata in paese, un uomo mi è venuto incontro per offrirmi una camera nella sua gîte, Dar al Aine, una casa rosa sulla destra poco dopo il parcheggio dei taxi. Sono andata a vederla: una stanza a due letti tutta per me in una casa luminosa con un grande albero di noce al centro. L’uomo voleva 120 dirham a notte (12 euro), ma dopo un po’ di contrattazione ci siamo accordati per 90 (9 euro).

I villaggi dell’Alto Atlante sono abitati quasi esclusivamente da berberi, i nativi del Maghreb conquistati e islamizzati dagli arabi a partire dal VII secolo. Rappresentano il 17% della popolazione del Marocco, chiamano se stessi imazighen (“uomini liberi”), parlano una propria lingua, l’amazigh, e hanno una propria cultura, che si è trasformata nel tempo a contatto con l’islam.

Fino alla metà del Novecento vestivano i tipici abiti tradizionali: gli uomini in bianco, le donne in rosso, con ornamenti d’argento intorno al capo e al collo.
Ormai non è più così: questi vestiti si portano solo ai matrimoni. L’abbigliamento delle donne è molto severo: tutto il corpo è coperto, e a volte anche il viso e le mani. Alcuni uomini portano la barba lunga, incolta e un po’ arruffata alla maniera dei talebani. Mi chiedo come mi vedano e se la mia presenza li infastidisca: sono l’unica donna a capo scoperto e vestita all’occidentale in tutto il villaggio. Gli altri escursionisti si muovono in gruppo e non entrano neppure in paese: dormono nelle guesthouse dei dintorni e se ne vanno appena finito il trekking. Io sono qui da sola da quattro giorni. Potrei coprirmi, ma che senso avrebbe? Dovrei mettermi un velo e una djellaba, e non mi sentirei a mio agio. Nel dubbio, saluto tutti con gentilezza e sono contenta quando ricevo in cambio un sorriso.

Una gran parte dell’economia di Imlil è legata al turismo: il flusso di escusionisti, costante in tutte le stagioni, dà lavoro a piccoli ristoranti, pensioni, negozi di attrezzatura sportiva, guide e portatori. Molti vengono qui d’inverno per lo sci alpinismo.

Per scalare il Toubkal occorre essere accompagnati da una guida. Non è sempre stato così: fino a pochi anni fa si poteva salire per conto proprio. Poi è successo un fatto che ha suscitato orrore in tutto il paese e nel mondo: nel dicembre del 2018 due ragazze scandinave che si erano accampate in tenda nel parco sono state violentate e decapitate da un gruppo di uomini appartenenti a una cellula jihadista. Lo ricordo bene perché il giorno dopo una mia allieva marocchina era venuta a scuola sconvolta e ci aveva raccontato fra i singhiozzi l’accaduto. Le indagini hanno poi appurato che gli assassini non erano di Imlil: venivano da varie città del paese in cerca di vittime per la loro spedizione punitiva in nome della Siria.

A Imlil il pensiero delle due ragazze uccise non mi abbandona mai. Resta sullo sfondo, mi accompagna a ogni passo. Penso a ciò che hanno dovuto sopportare prima di morire, allo strazio delle loro famiglie, all’assurdità della loro fine.

Non ero sicura di voler salire sul Toubkal: lo associavo a quel fatto di sangue. È stato Martin, un francese trentenne che ho incontrato per caso in paese, a convincermi. Stava cercando qualcuno con cui condividere il costo della guida (800 dirham per due giorni).

Per trovare una guida basta rivolgersi ai proprietari delle pensioni o ai negozi di attrezzatura sportiva. In paese c’è anche un ufficio apposito, il Bureau des Guides d’Imlil, ma quando ci sono andata il tizio al bancone non mi ha quasi dato retta. Ci siamo poi accordati con Said, trovato da Martin grazie al passaparola.

Siamo partiti il mattino dopo alle nove e mezza con le scarpe da trekking ai piedi e il resto dell’attrezzatura nello zaino: giacca a vento, pile, pantaloni lunghi, guanti, berretto, lampada frontale. Si può noleggiare tutto, zaino compreso, a Imlil.

Il primo tratto, che inizia subito dopo la sede del parco, dove occorre registrarsi, è una mulattiera di 12 km che sale di 1500 metri fra montagne brulle punteggiate di ginepri. È un paesaggio aspro, molto bello. Ogni tanto, mentre si cammina, bisogna lasciare spazio alle carovane di muli che salgono carichi di provviste, bagagli e tende per chi si accampa nel parco.

Si sale fino ai due grandi rifugi ai piedi del Toubkal, che ospitano ogni notte centinaia di escursionisti. Sono ben organizzati e offrono pernottamento, cena e colazione per 290 dirham. Noi siamo andati in quello del CAF e abbiamo trovato posto senza aver prenotato.

La cena era buona, ma io ero stanchissima e non ho quasi mangiato. Avevo faticato a salire fin lì. Per tutto il giorno Said aveva regolato il suo passo sul mio per non lasciarmi indietro, mentre Martin andava avanti veloce per conto suo. Temevo di non farcela ad arrivare sul Toubkal e di essere di peso a entrambi. Volevo rinunciare, ma tutti quelli con cui ho parlato mi hanno incoraggiata: “Ce la puoi fare, piano piano”.

Il mattino dopo mi sono svegliata riposata e ho deciso di andare. Martin invece era uno straccio: non aveva dormito, aveva mal di testa, nausea e dolori addominali. I tipici sintomi del mal di altitudine. Quando è così non c’è niente da fare: bisogna scendere. Ma lui non ha voluto sentire ragioni ed è venuto con noi. Dopo un’ora è tornato indietro: stava troppo male.

Dal rifugio alla cima del Toubkal sono circa 900 metri di dislivello. Si parte quando è ancora notte, con la lampada frontale accesa: una processione di luci che si inerpica sul fianco della montagna. Il sentiero, ripido e sassoso, sale senza tregua. Said cammina lentamente davanti a me e mi aspetta con pazienza quando mi fermo per riprendere fiato.

Ci metto quattro ore a salire, un’ora in più della maggioranza degli escursionisti con cui ho parlato. Sulla cima c’è un monumento a forma di piramide e una vista spettacolare sulle montagne dell’Atlante. Sono contenta di avercela fatta, ma a volte mi chiedo se abbia senso fare tutta questa fatica. Da dove viene questa spinta a salire sulle vette?

La discesa è più veloce (due ore), ma bisogna fare attenzione alla ghiaia che rende il sentiero molto scivoloso.

Al rifugio ci aspettava Martin, pallido e senza forze. Aveva dormito un po’, ma non stava bene. Abbiamo deciso di scendere subito: altre quattro ore di marcia fino a Imlil.

Per strada abbiamo incontrato un gruppo che aveva scalato il Toubkal senza dormire al rifugio: 2500 metri di dislivello in salita e in discesa in un solo giorno. C’era anche un uomo che andava su di corsa: “È un maratoneta”, mi ha spiegato Said. “Lo fa tutti i giorni”.

Said, guida sensibile e paziente (tel. e Whatsapp +212 632-292247)

Tre giorni a Marrakesh

Sono arrivata a Marrakesh alle quattro del mattino con l’autobus notturno da Fès e ho dovuto aspettare tre ore all’autostazione perché non sapevo se la reception dell’ostello fosse aperta anche di notte. Avrei dovuto chiedere, ma me n’ero dimenticata. La sala d’aspetto era tranquilla, sorvegliata da una guardia. C’era persino una colonnina per ricaricare il cellulare.

Alle sette, quando mi sono decisa a prendere un taxi, si è messo a piovere forte: una pioggia calda mista a sabbia. L’ostello era ancora chiuso. Una donna uscita dalla porta accanto ha suonato il campanello per me: una, due, tre volte. Io ero in imbarazzo: ho sempre paura di disturbare. Si è sentito un rumore di passi affrettati lungo le scale, poi un ragazzo sorridente ha aperto la porta e mi ha fatto entrare. Il mio letto non era ancora pronto, era troppo presto.
Ho dormito per un paio d’ore su un materasso in un angolo della reception prima di decidermi a uscire a esplorare la città. Faceva così caldo da togliere il fiato.

La prima cosa che colpisce di Marrakesh è il colore rosato delle mura e delle case. E poi gli spazi, decisamente più ampi che a Fès. Le  strade della medina sono abbastanza larghe da permettere la circolazione delle moto, che infatti spuntano da ogni parte, facendo lo slalom fra i pedoni.

A Marrakesh in estate la vita inizia tardi. I negozi aprono verso le dieci, ed è l’ora migliore per addentrarsi nella medina. I venditori sono ancora occupati ad allestire la loro mercanzia e non ti assillano. Dalle strade bagnate si leva un po’ di frescura.

L’immensa piazza principale, Djemaa El Fna, non è ancora così scoraggiante da attraversare sotto il sole, anche se è meglio passarci dopo il tramonto, quando si riempie di persone del posto e turisti che vengono qui per incontrarsi, bere un succo di frutta e passeggiare fra gli incantatori di serpenti, i musicisti e i venditori di dentiere.

A poca distanza dalla piazza svetta il minareto della moschea Koutoubia, circondata da bellissimi giardini dove ci si può rilassare all’ombra nelle ore più calde.

L’arte islamica fra il Quattrocento e il Cinquecento si svela in tutto il suo splendore nella Madrasa di Ben Youssef, recentemente restaurata, che fu la più grande scuola coranica del Nord Africa.

Due musei valgono sicuramente una visita: il Dar Si Said, che ospita un collezione di tappeti provenienti da ogni parte del paese, e la Maison de la Photographie, che espone fotografie scattate in Marocco fra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. Fra le acquisizioni più recenti figurano alcune opere di Nicolás Muller, ebreo ungherese fuggito in Marocco durante la Seconda guerra mondiale. Oltre ad aver documentato con le sue immagini la vita dei rifugiati a Tangeri, ha ritratto con sensibilità ed empatia le persone del posto.

L’estate purtroppo è una pessima stagione per visitare Marrakeh. Fa troppo caldo per apprezzare a fondo monumenti e musei, e anche le strade della medina possono diventare snervanti con il loro incessante flusso di turisti, carretti e moto. Dopo qualche ora occorre prendersi una pausa e riposare all’ombra, magari davanti a un ventilatore. Ho resistito tre giorni, il quarto sono scappata sulle montagne dell’Alto Atlante alla ricerca di un poco di frescura.